La produzione lirica di Paolo Andreone, fin dal titolo “Attendere chiare notti”, è permeata da contrasti che sottendono una ricerca gnoseologica mai paga, anzi, in continuo progresso fino a scontrarsi con realtà apparentemente antinomiche, come appunto le chiare notti. Antitesi soltanto apparenti che tentano di ricomporsi in un superiore ordine sotto l’azione demiurgica del poeta, i cui versi, a fronte di una realtà spesso arida e difficilmente pronta a disvelarsi, ne registrano sentenziosamente il dato, senza con ciò rinunziare ad un’indagine metafisica.
La lezione novecentesca di autori come Montale, Sbarbaro, Campana, rassegnati ad uno scacco esistenziale su cui grava l’impossibilità di attingere ad una realtà superiore vicina all’auscultamento, ma alfine mai perseguita, pare assimilata. Tuttavia, l’esito non sfocia in un atteggiamento rinunciatario, bensì di fiducia corroborata dall’amore, unica forza capace, nella sua essenza primigenia, di sostenere pesi della vita altrimenti grevi.
E anche laddove il poeta pare abbandonarsi a momenti di rassegnazione, in realtà si tratta di rovesciare il polo negativo in positivo, scoprendo che anche la rinuncia è affermazione della volontà di non cedere a lusinghe troppo spesso dominatrici delle umane vite. D’altra parte Gozzano, nel sentenziare “socchiusi gli occhi sto supino nel trifoglio, e vedo un quadrifoglio che non raccoglierò”, aveva suggellato una filosofia di vita, che, pur se diluita rispetto all’esempio schopenhaueriano, è decisa ad affermare la propria estraneità alle attrattive della vita per non caderne vittima.
L’unico modo per evitare tale scacco esistenziale, secondo Andreone, è il ricupero di una dimensione fanciullesca, che, sebbene adombrata dal peso talora opprimente della civiltà, in fin dei conti alberga in ognuno e può consentire di osservare le cose in maniera spontanea, quasi “primitiva”, insomma aliena da costrizioni e condizionamenti della società. La sua poetica, pertanto, ben si concilia col proposito di recuperare quella dimensione ingenua e fanciulla, in quanto fa della semplicità la cifra specifica compositiva: anche in questo caso una semplicità solo apparente, la quale in realtà dissimula simmetrie e finezze espressive, segno di una capacità poetica ben maturata, in ossequio al precetto latino secondo cui la vera arte è...celare l’arte.